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Interviste ed Editoriali - 07/12/2022

L’Aifa, la ricerca e quel payback da mandare in pensione. Parla Massimo Scaccabarozzi

Intervista del Presidente della Sezione Farmaceutica e Biomedicali di Unindustria per Formiche

Intervista all’ex presidente di Farmindustria, oggi a capo del think tank della Fondazione Menarini e della sezione Farmaceutica e Biomedicali di Unindustria. Assistiamo a un meccanismo vecchio e iniquo, sarebbe sufficiente compensare avanzo e deficit sanitario. All’Italia serve un’Aifa forte, dalle spalle larghe e ben organizzata. La ricerca? Non è vero che l’Europa dipende da Usa e Cina

Per le imprese del farmaco è tempo di essere trattate come motori della crescita e dell’innovazione. Ed è bene che i governi, presenti o futuri, lo capiscano in fretta. Massimo Scaccabarozzi questo mondo lo conosce bene. Manager di lungo corso, a capo di Janssen Italia, per dieci anni ha guidato Farmindustria, e oggi è presidente della sezione farmaceutica e biomedicale di Unindustria Lazio e direttore di On Radar, think tank della Fondazione Internazionale Menarini. Formiche.net ha discusso con Scaccabarozzi circa alcune questioni di stretta attualità per le aziende del settore. Attualità che più stretta non si può.

Partiamo dall’annosa questione del payback. Quest’anno per le imprese coinvolte nella spesa diretta per i farmaci si rischia una mazzata, anche alla luce di un’inflazione decisamente preoccupante. Impressioni?

Il payback è un meccanismo superato e anche da tempo. Fu introdotto nei primi anni duemila per fronteggiare una fase di emergenza, ma oggi non ha più ragion d’essere. Le ultime manovre hanno portato a pensare a un riequilibrio finanziario tra spesa diretta e convenzionata da far sfociare nella eliminazione del payback. E, onestamente, ci auguriamo che sia così.

C’è da auspicarlo. Ma mettiamo che invece non succeda…

Voglio essere ottimista. Vede, questo meccanismo è malato, perché impone alle imprese dei ripiani di spesa che nei fatti sono tasse aggiuntive. Da un lato c’è uno sforamento, sulla spesa diretta, per la convenzionata c’è sempre un avanzo, non le pare un assetto decisamente iniquo? Altroché se lo è. Per questo occorre fare delle compensazioni tra avanzo e disavanzo, per sanare una stortura lesiva di un’intera industria. Basterebbe riportare nella convenzionata quei prodotti, tra l’alto a basso costo, che possono essere tranquillamente e correttamente prescritti dal medico di medicina generale e dispensati nelle farmacie al pubblico che nel corso degli anni sono stati spostati nella distribuzione diretta. Questo già abbasserebbe l’entità del payback e a costo zero per la spesa farmaceutica pubblica. Nel caso di ulteriori disavanzi, dovrebbero essere allocati nella parte della spesa diretta così da rendere non solo tutto più equo, ma, soprattutto, adeguando l’allocazione ai trend di fabbisogno di salute reali e non ipotetici. In quest’ottica, poi, non si creerebbe disagio di accesso a molti pazienti.

La riforma dell’Aifa, a lungo invocata anche dalle stesse imprese che lei ancora oggi rappresenta, la convince?

Partiamo da un presupposto, chi fa industria non deve intervenire sulle decisioni che assumono i governi. Ma può dare delle indicazioni, questo sì…

Sfida accettata. Prego…

Noi abbiamo sempre detto di volere un’Aifa forte, con organizzazione e capacità di ridurre i tempi di approvazione dei farmaci, il che non sempre è avvenuto. Molti pazienti hanno ancora oggi accesso a dei farmaci con ritardo. E poi serve una struttura che garantisca una disponibilità di personale adeguata. Basti pensare alle ispezioni, alle verifiche presso gli stabilimenti. D’altronde, dopo la pandemia, c’è bisogno di investire in questo, l’Italia è il primo produttore europeo di farmaci e per questo occorre un’agenzia che sia messa nella condizione di rispondere rapidamente per evitare che gli investimenti produttivi siano delocalizzati in paesi esteri e non nelle nostre regioni. Non ultimo che abbia una propensione allo sviluppo del settore farmaceutico che, soprattutto durante la pandemia, ha dimostrato di essere un importante asset strategico per la salute dei cittadini, per l’economia del paese e per la sicurezza nazionale.

Un taccuino per il governo. Le aziende farmaceutiche stanno pagando l’energia tre o quattro volte il costo pre-bellico. Qualche richiesta?

Credo giustamente sia impossibile nel nostro Paese assistere a un riequilibrio dei prezzi, per scaricare i costi sui consumatori. Però penso che il governo possa e debba intervenire su tre direzioni. Primo, sul payback, secondo con una moratoria su tante manovre economiche al ribasso che puntualmente riducono i prezzi sul prontuario, anche in momenti di crisi industriale come questi. E terzo, aumentare l’incentivo e la spinta industriale sulla produzione, che è la nostra vera eccellenza e in questo momento di reshoring, sotto attacco da altri Paesi non solo extraeuropei.

Allargando lo sguardo, in Europa la ricerca sembra essere dipendente dai mercati cinesi e americani. Le cose stanno così?

Questa affermazione è vera solo in parte. I processi di ricerca sono processi mondiali, al di là da dove nasce un prodotto, al suo sviluppo clinico partecipano tutti i paesi europei. Credo sia sbagliato dire che un paese concorra alla ricerca più di un altro. L’Italia investe 3 miliardi e mezzo in ricerca, è molto. A questo si devono aggiungere 700 milioni di investimenti annui in studi clinici. Ricordo anche che 3 tra le prime 5 terapie avanzate erano di origine italiana. La ricerca in Italia può e deve giocare la sua parte. E questo deve essere valorizzato.

L'intervista è in allegato o consultabile sul sito di Formiche

 

 

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