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News - 04/03/2013

Appalti / Appalti delle Regioni: criteri di aggiudicazione e imprese locali

Secondo la Corte costituzionale, le Regioni a statuto ordinario non possono disciplinare le procedure di affidamento degli appalti pubblici ed i criteri di valutazione dell'offerta

Secondo la Corte costituzionale, le Regioni a statuto ordinario non possono disciplinare le procedure di affidamento degli appalti pubblici ed i criteri di valutazione dell'offerta e, quindi, non possono prevedere un criterio che, sia pure a parita' di punteggio dei concorrenti, stabilisca una preferenza per le imprese radicate in uno specifico territorio.

Il caso

Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato molteplici norme della legge finanziaria 2012 della Regione Campania (l.r. 27 gennaio 2012, n. 1) e tra queste, l’art. 27, comma 1, lett. b), in virtù del quale, in materia di lavori pubblici, i bandi di gara effettuati con il criterio dell’offerta più vantaggiosa avrebbero dovuto stabilire che, nel caso in cui l’esito della valutazione avesse dato luogo ad una parità di punteggio tra più concorrenti, sarebbero state preferite le imprese che avevano la propria sede legale ed operativa nel territorio campano, ovvero quelle che svolgevano nello stesso almeno la metà della propria attività, oppure quelle che impiegavano almeno la metà dei lavoratori cittadini residenti in Campania.

Secondo il ricorrente, poiché la regolamentazione della selezione dei concorrenti sarebbe di competenza dello Stato, che l’ha esercitata con il d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, il quale stabilisce i principi di parità di trattamento, libertà di concorrenza e non discriminazione, individuando i criteri di valutazione dell’offerta e negando rilievo alla sede dell’impresa o alla residenza dei dipendenti nel territorio regionale, la norma regionale avrebbe violato l’art. 117, secondo comma, lett. e) e l), Cost.

La Regione Campania ha resistito al ricorso, sostenendo che la legge statale prevedrebbe che il bando di gara contempli per ogni criterio di valutazione prescelto tra quelli elencati in maniera esemplificativa dei sub-criteri per l’affidamento del contratto.

La norma regionale impugnata, a suo avviso, mirava soltanto a limitare la discrezionalità della P.A., prevedendo che, nel caso di offerte in posizione di parità, la scelta doveva avvenire in base alla clausola di territorialità, giudicata dalla giurisprudenza amministrativa compatibile con la tutela della concorrenza e con il principio di buon andamento dell’amministrazione, dato che il rilievo attribuito alla localizzazione della sede dell’impresa garantirebbe il migliore svolgimento della prestazione contrattuale.

La decisione della Corte

La Corte costituzionale, con la sentenza 26 febbraio 2013, n. 28, ha accolto il ricorso, dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma regionale.

Il Giudice delle leggi è più volte intervenuto a dirimere i contrasti tra Stato e Regioni concernenti il riparto di competenza nella delicata ed importante disciplina degli appalti pubblici, affermando ripetutamente che vanno ricondotte alla materia «tutela della concorrenza», spettante alla competenza esclusiva dello Stato: la fase di aggiudicazione (così a partire dalle sentenze n. 401 del 2007 e n. 411 del 2008); la procedura di affidamento dei lavori (sentenza n. 45 del 2010), di selezione dei concorrenti e, quindi, la disciplina dei criteri di aggiudicazione (sentenze n. 186 del 2010; n. 307 e n. 160 del 2009; n. 411, n. 322, n. 320 e n. 1 del 2008, n. 431 e n. 401 del 2007); la progettazione e direzione dei lavori (sentenze n. 401 del 2007 e n. 221 del 2010); la validazione del progetto e la disciplina dei criteri di verifica e validazione dei progetti (sentenza n. 322 del 2008).

La Corte ha, invece, ricondotto alla materia «ordinamento civile» - pure spettante alla competenza esclusiva dello Stato - la direzione dei lavori (sentenza n. 401 del 2007) e la fase negoziale (sentenze n. 160 del 2009, n. 411 e n. 51 del 2008, e n. 401 del 2007).

La sentenza ha ribadito detti principi, sottolineando che l’esigenza di assicurare «l’adozione di uniformi procedure di evidenza pubblica nella scelta del contraente, idonee a garantire, in particolare, il rispetto dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di proporzionalità e di trasparenza» esige che la regolamentazione della selezione dei concorrenti ed i criteri di aggiudicazione siano disciplinati dal legislatore statale, in quanto riconducibili alla materia «tutela della concorrenza».

La norma regionale è stata, quindi, ritenuta costituzionalmente illegittima, perché in contrasto con tali principi ed in quanto, esprimendo una preferenza per le imprese radicate in uno specifico territorio, era di ostacolo alla concorrenza, la cui tutela esige, invece, «di allargare la platea degli operatori economici (cosiddetta “concorrenza nel mercato”) e, in ogni caso, impone la parità di trattamento di questi ultimi (cosiddetta “concorrenza per il mercato”)».

I possibili impatti pratico-operativi

La dichiarazione di illegittimità costituzionale pronunciata dalla Corte ha l’effetto immediato di evitare che nelle procedure di affidamento degli appalti pubblici nella Regione Campania possano essere privilegiate (sia pure a parità di condizioni dell’offerta) le imprese localizzate nel territorio regionale.

Peraltro, l’importanza della sentenza eccede la specificità della norma regionale campana, in primo luogo, perché il principio enunciato è suscettibile di essere richiamato per dubitare della legittimità costituzionale di norme omologhe eventualmente emanate da altre Regioni.

In secondo luogo, perché dà continuità alla costante giurisprudenza della Corte che, nella materia degli appalti pubblici, ha segnato i confini del riparto di competenza tra Stato e Regioni, apportando chiarezza in un settore strategico per l’economia.

 

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