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News - 14/10/2014

Responsabilità amministrativa degli enti: ancora dubbi di costituzionalità

A tredici anni abbondanti dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 231/2001 che ha introdotto la responsabilità amministrativa “da reato” degli enti collettivi, permangono dubbi sulla normativa cautelare (e sanzionatoria) applicabile.

 A tredici anni abbondanti dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 231/2001 che ha introdotto la responsabilità amministrativa “da reato” degli enti collettivi, permangono dubbi sulla normativa cautelare (e sanzionatoria) applicabile.

La Suprema Corte esclude, però, la fondatezza del denunciato contrasto tra d.lgs. n. 231/2001 e la legge delega n. 300/2000 per violazione dell’art. 76 Cost.
L’art. 11 lettera o) legge n. 300/2000 delegava il governo a prevedere l’applicabilità anche in sede cautelare delle sanzioni di cui alla lettera L): tra queste non è prevista la confisca in quanto menzionata nella lettera i) della stessa legge.
Il legislatore delegato (d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231) ha, invece, previsto che anche la sanzione della confisca sia applicabile come misura cautelare reale sub specie di sequestro preventivo delle cose di cui è consentita la confisca a norma dell’art. 19 (art. 53).
La scelta ha suscitato subito non poche perplessità.
Se Cass. sez. II, 16 febbraio 2006, PM c. Miritello, si è limitata a sottolineare che il sequestro preventivo è stato inserito nel decreto n. 231/2001 per iniziativa autonoma del legislatore delegato “non essendovene traccia nella legge delega”, il GIP Trib. Bari – con ordinanza 19 giugno 2006 – si è spinto oltre con l’esprimere il convincimento che “le cautele reali risultano inserite nel decreto legislativo in esame con iniziativa autonoma di dubbia legittimità da parte del legislatore delegato”.
Di una specifica questione di costituzionalità prospettata della difesa per violazione dell’art. 76 Cost., e cioè per eccesso di delega, vi è traccia nell’ordinanza 26 luglio-6 ottobre 2007 del tribunale del riesame di Napoli dove è menzionata la richiesta di rimettere alla Corte costituzionale la questione relativa alla legittimità dell’art. 53 d. lgs. n. 231/2001 per il superamento dell’esplicito limite posto dall’art. 11 lett. o) legge n. 300/2000 alla previsione di sanzioni applicabili anche in sede cautelare, con adeguata tipizzazione dei requisiti richiesti”, ma anche la ritenuta manifesta infondatezza della questione.
Il problema si è riproposto con riguardo ad un sequestro preventivo finalizzato alla confisca disposto dal Tribunale del riesame di Trento e impugnato con ricorso per cassazione.
La Suprema Corte ha dato atto del silenzio della legge delega n. 300/2000 sul punto, ma ha escluso la fondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 53 d. lgs. n. 231/2001 per contrasto con la legge delega (Cass. sez. II, 16 settembre-6 ottobre 2014 n. 41435).
La Suprema Corte ha osservato che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto e del prezzo del reato, anche nella forma per equivalente, è già regolato nell’ambito dell’ordinamento di tipo processuale.
Il legislatore non doveva quindi fornire alcuna delega al governo sul punto perché non necessaria ed anzi proprio la previsione di cui alla lettera o) del citato articolo 11 rafforza il convincimento che il legislatore abbia voluto che anche per le persone giuridiche vi sia applicazione in sede cautelare della misure irrogabili nei loro confronti.
In buona sostanza, la legge delega tace sul punto non per vietare la scelta del legislatore delegato di prevedere misure cautelari reali suscettibili di consolidarsi come sanzioni nei confronti dell’ente ritenuto autore di illecito amministrativo “da reato”, ma semplicemente perché già esiste nel codice di rito penale la disciplina del sequestro preventivo anche per equivalente e perché tutte le norme processuali penali sono applicabili nel procedimento penale a carico dell’ente collettivo “in quanto compatibili”.
Questo è quanto previsto dall’art. 34 d. lgs. n. 231/2001, peraltro nemmeno evocato nella sintetica motivazione della Suprema Corte, e deve pertanto ritenersi che – sia pure per implicito – i giudici di legittimità abbiano affermato la compatibilità dell’istituto generale con il procedimento a carico degli enti.
L’art. 34 citato è, a sua volta, in linea con l’art. 11 lettera q) della legge delega n. 300/2000 (che esige che la responsabilità amministrativa dell’ente venga accertata con le forme processuali penali) e, pertanto, non presta il fianco a dubbi di eccesso di delega.
La soluzione prevalsa con la decisione in esame appare comunque non risolutiva perché la legge delega avrebbe potuto – volendolo – prevedere che non solo le sanzioni di cui alla lettera L) [chiusura anche temporanea; sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni; interdizione dall’esercizio dell’attività; nomina di commissario; divieto di contrattare con la pubblica amministrazione; esclusione di agevolazioni, finanziamenti, contributi; divieto di pubblicizzare beni e servizi], ma anche quelle della lettera i) [confisca del profitto o del prezzo del reato, anche nella forma per equivalente] fossero “applicabili in sede cautelare”.
Logicamente non si può confidare sempre su un legislatore attento e lungimirante: in una situazione ermeneuticamente complicata, la Suprema Corte ha fatto una scelta di real politik e di sostanziale buon senso.
Le misure cautelari reali, anche nel procedimento a carico degli enti, sono ormai una struttura portante dell’accertamento e della spinta verso una “cultura della legalità” imprenditoriale.
Escluderne l’applicabilità, in attesa di un intervento ad hoc del legislatore ordinario, sarebbe stato indice di un eccessivo ottimismo sui tempi di reazione del Parlamento (o del Governo, mediante decreto legge).
La scelta di investire della decisione la Corte costituzionale non avrebbe creato scandalo e, forse, avrebbe aperto un periodo di riflessione destinato a portare ad un testo normativo inequivoco per i destinatari, gli inquirenti e il giudice.

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