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News - 20/05/2013

Raddoppio dei termini di decadenza dell'accertamento tributario

L'ordinanza della Corte costituzionale 247/2011 ha sancito il dovere dei giudici di merito, a richiesta del contribuente, di svolgere un controllo sul riscontro dei presupposti dell'obbligo di denuncia

I giudici sono sempre più attenti nel valutare la fondatezza del raddoppio dei termini di decadenza dell'accertamento in presenza di reati tributari. È quanto emerge da varie pronunce delle Commissioni tributarie, a distanza di poco meno di due anni dall'ordinanza della Corte costituzionale 247/2011 che, nel confermare la legittimità, in presenza di reato, del raddoppio del termine di decadenza, ha sancito il dovere dei giudici di merito, a richiesta del contribuente, di svolgere un controllo sul riscontro dei presupposti dell'obbligo di denuncia per evitare un utilizzo strumentale della segnalazione da parte dell'amministrazione.

La questione: in presenza di un reato tributario, i termini di decadenza dell'accertamento vengono raddoppiati, per cui si passa dal 31 dicembre del quarto anno successivo a quello del 31 dicembre dell'ottavo anno successivo. In ipotesi di omessa presentazione il 31 dicembre del quinto anno successivo è invece differito al 31 dicembre del decimo anno. La Consulta, con l'ordinanza 247/2011, ha precisato che il raddoppio si realizza anche se il reato viene scoperto dagli accertamenti dopo il termine di decadenza ordinario.

Tuttavia, la Corte, per evitare un utilizzo strumentale del fisco nella comunicazione della notizia di reato alla Procura, ha precisato che è consentito al giudice tributario di controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell'obbligo di denuncia. Il giudice tributario deve compiere una valutazione ora per allora circa la loro ricorrenza e accertare, quindi, se l'amministrazione ha agito con imparzialità o, invece, ha fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni per fruire ingiustificatamente del più ampio termine di accertamento.

Le Commissioni tributarie: in questo contesto la Ctr dell'Umbria (237/1/11 e 41/02/2012) ha ritenuto che se il reato tributario è prescritto, l'ufficio non può usufruire del raddoppio dei termini. Ad analoghe conclusioni è poi giunta sia la Ctp di Vicenza (824/1/12) sia, più di recente, la Ctp di Ancona (102/2/13).

Queste pronunce ritengono chiaramente strumentale alla riapertura dei termini fiscali la denuncia all'autorità giudiziaria e quindi priva di senso, stante l'intervenuta prescrizione dell'illecito.

Esse sono particolarmente importanti perché, fino allo scorso 17 settembre 2011 (data di entrata in vigore dei nuovi termini prescrizionali per le violazioni penali tributarie) questi termini erano 6 anni dalla commissione del reato, ovvero, in presenza di cause interruttive, 7 anni e mezzo. A ciò va poi aggiunto che l'amministrazione, proprio per consentire alle Commissioni tributarie di operare la valutazione richiesta dalla Consulta, deve produrre la comunicazione di reato, circostanza che, di norma, non avviene. Per queste ragioni alcune commissioni (Ctp di Milano, sentenze 231/40/2011 e 327/5/2011, Ctp Reggio Emilia, 135/1/2012, Ctp Treviso, 73/5/2012, Ctp Lecco, 74/1/12) hanno chiarito che, non potendo verificare la sussistenza dei presupposti dell'obbligo di denuncia, il raddoppio in questione non è legittimo
Sempre la Ctp di Reggio Emilia, con le sentenze 114/4 e 115/4, entrambe depositate il 19 settembre 2012 ha ritenuto poi che se la notizia di reato non è fondata, l'amministrazione non può pretendere il raddoppio dei termini di decadenza. 
Infine secondo la Ctp di Pesaro (136/3/2011) se, a seguito dell'autotutela la rettifica scende sotto la soglia di rilevanza penale, il raddoppio in questione non opera.
In ultimo da segnalare la pronuncia della Ctp di Brindisi (194/3/2011) secondo cui la denuncia del rappresentante della società consente il raddoppio in capo a quest'ultima ma non per le rettifiche operate in capo ai soci.

 

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